lunedì 28 giugno 2010

STANLEY KUBRICK FOTOGRAFO 1945-1950



“Ho sempre pensato che un’ambiguità credibile, davvero realistica, costituisca la migliore forma di espressione".



L' amore per il paradosso, per l’ossimoro, per l'ambiguità è una delle cifre dell'opera di uno dei maggiori registi del '900: Stanley Kubrick.Mentre molti sono gli appassionati dei suoi film, pochi sapevano, fino a oggi, che, negli anni dell'immediato dopoguerra Kubrick è stato anche un grandissimo fotografo.Dal 1945 al 50 egli lavorò infatti per la rivista Look, una pubblicazione ad ampia diffusione pubblicata a New York che si proponeva, negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, di documentare la vita sociale nell’America del dopoguerra.A Rainer Crone, curatore di questa mostra e grande studioso di arte contemporanea, si deve la scoperta e lo studio di un complesso di ben 12.000 immagini tratte da questa rivista, che nessuno mai aveva avuto modo di analizzare dal punto di vista critico o storico.
Oggi abbiamo la fortuna di poter presentare al Palazzo della Ragione a Milano non una semplice raccolta delle fotografie di un artista ,per quanto importante, ma una serie di ‘storie’ narrate per immagini, che costituiscono un corpus storicamente unico, attraverso cui ci è possibile leggere, in una forma ben identificabile, lo stile e le capacità da ‘story teller‘ del grande regista.
In particolare, questa raccolta di negativi ci permette di decodificare in modo persuasivo alcuni dei riferimenti culturali che saranno caratteristici anche del Kubrick regista:Innanzitutto il tema dell’ ‘estraneazione’ dell’artista rispetto alla propria opera d’arte.Kubrick viveva in una New York in cui Brecht riscuoteva grandi successi con la sua ‘Opera da tre soldi’. E lo stesso regista, ebreo di origine, non poteva non riconoscersi in quell’aspetto della cultura tedesca che, che va dall’Espressionismo in poi. e ancora, la certezza che una raffigurazione ‘stilizzata’ della realtà possa essere molto più efficace di una ‘naturale’ documentazione. Già Proust aveva attirato l’attenzione sulla peculiarità di un approccio fotografico alla realtà che si risolve in una sorta di ‘alienazione’ da essa. Alla luce dell’opera successiva di Brecht, tale ‘alienazione’ finisce però per trasformarsi, nell’opera di Kubrick, nella sperimentazione delle proprie emozioni ed esperienze di fronte al frammento di realtà inquadrato dalla macchina fotografica.e infine, l’interesse fortissimo già nel giovane Kubrick, nel rappresentare tutto ciò che non è ancora certo e ben definito, il fascino che su di lui esercita tutto ciò che non è più e non è ancora. Caratteristica specifica, peraltro, di una cultura americana che si sta affermando nella propria originalità e nel proprio tentativo di distaccarsi da quella europea.


Una serie di racconti per immagini dunque che vengono presentate al pubblico italiano, con la certezza che, al di là dell’interesse storico-artistico della scoperta, esse consentano ai tanti appassionati dell’opera di Stanley Kubrick di ritrovare in esse, in luce, tutta la capacità narrativa, il senso dell’humor e la forza visionaria del grande regista.Per la prima volta al mondo, una mostra indaga un aspetto finora poco conosciuto della carriera di Stanley Kubrick. Dal 16 aprile al 4 luglio 2010, a Palazzo della Ragione di Milano saranno esposte oltre 200 fotografie, molte delle quali inedite e stampate dai negativi originali, realizzate da Stanley Kubrick dal 1945 al 1950 quando, a soli 17 anni, venne assunto dalla rivista americana Look. L’esposizione, curata da da Rainer Crone è stata realizzata dal Comune di Milano -Cultura e da Giunti Arte mostre musei.




Milano, Palazzo della Ragione, sino al 4 luglio 2010

mercoledì 23 giugno 2010

Se la guida è Canetti...



Elias Canetti, Le voci di Marrakech, ed. Adelphi


"Io sogno un uomo che disimpari a tal punto le lingue della terra da non comprendere più, in nessun paese, ciò che dice la gente. Che c'è nella lingua? Che nasconde? Che cosa ci sottrae?".
Le grida dei ciechi di Marrakech forniscono lo spunto a Canetti per riflettere sul senso del linguaggio, della comunicazione. I ciechi urlano ed elevano al cielo il loro grido di lode ad Allah. Non hanno la vista, ma percepiscono il mondo e la sua sacralità attraverso suoni primigeni, indistinti, autentici.
Canetti ci dà la possibilità di entrare con lui in un universo contraddittorio, a tratti primitivo e favolistico, a tratti scaltro e industrioso. Dopo la lettura, nelle orecchie del lettore permane l'eco di grida lontane e, fra le dita, granelli di sabbia rossa.

di E.L.C.