mercoledì 14 maggio 2008

Seduto alla Brasileira

La mia passione per il Portogallo e per il Maestro Fernando Pessoa ha preso la forma, nel giugno del 2006, di un racconto breve che è giunto secondo al concorso per foto e racconti "Scatti di Scrittura", bandito da Letteralmente - il portale della piccola editoria.


La foto, scattata da me a Lisboa nel Barrio Alto nell'estate dell'anno precedente, ritrae Pessoa assiso alla Brasileira, lo storico caffè, divenuto circolo letterario nel periodo d'oro della letteratura portoghese. A Lisbona, dal 1915 in poi, discettavano, riuniti nel cuore della città, intellettuali come FernandoPessoa e i suoi eteronimi (e chi potrebbe dimenticarli?), Mário de Sá-Carneiro, Almada Negreiros, Armando Córtes-Rodriguez, Luis de Montalvor, Alfredo Pedro Guisado che avevano dato vita alla rivista Orpheu, di ispirazione futurista, paulista e cubista. Il mio racconto è un omaggio al Poeta-Fingitore e alla scrittura come mappa per poter ripercorrere le tappe della nostra memoria.


Seduto alla Brasileira

Cosa ci faccio qui, a contemplare la folla che si affanna a correre, assecondando il movimento del tempo, dovrei cominciare a chiedermelo. Non so rispondere. È una domanda che forse sarebbe opportuno porre a ciascuno di noi, a chiunque abbia voglia di fermarsi per un attimo a osservare il mondo, bloccando il tempo in quel frammento di stasi che disorienta perchè è morte nella vita. Mi sono seduto per questo, per contemplare la vita, immobile come un morto. Ma non rimarrò seduto qui per molto. La mia è soltanto una pausa nell’incessante tamburellare del giorno. Ho sempre schivato il contatto con l’esterno, con quell’altro da me che non è nulla se non il fantasma di me stesso. Tutto è in me, anche l’altro che vedo, che fisso, che contemplo seduto sulla sedia di questo caffè di Lisbona dove servono un ottimo sorbetto al limone e un caffè senza pari. Io sono l’altro, sono tutti gli altri, le infinite possibilità dell’esistere. Devo ancora ordinare. La sedia accanto a me è vuota. Preferirei rimanere da solo nella folla, in compagnia della mia contemplativa solitudine, ma non posso negare ad un viandante la sosta. Accetto di sedere accanto soltanto a poeti o instancabili viaggiatori. Che poi, in fin dei conti, sono la stessa cosa. Gradisco la vostra compagnia ad un patto: che se siete dei viaggiatori, dopo aver ripreso un po’di fiato, mi mostrerete le carte dei vostri viaggi. Ogni viaggiatore che si rispetti porta con sé le mappe dei luoghi visitati e quelli da visitare, non si separa mai da un taccuino su cui annotare eventi, situazioni memorabili o incontri con uomini straordinari. A me interessano molto i viaggiatori, perché io ho viaggiato molto poco. Dei pochi incontri indimenticabili che ho fatto ho dimenticato quasi tutto. Non avevo con me un taccuino. Niente scrittura, niente passato. Ho peccato di presunzione perché pensavo che non avrei avuto bisogno di affidare alle lettere i miei ricordi, sicuro che sarebbero rimasti intatti, riposti in uno dei tanti cassetti della mia memoria, pronti a saltar fuori nel momento di fare ordine. Non faccio mai ordine. Forse è una cattiva abitudine, ma l’ordine mi disorienta e mi allontana dal contenuto delle cose. L’ordine è pura forma. Il sogno è forma? Molti di noi vivono di dimenticanze o di sogni, di quei rifiuti della coscienza su cui l’anima imbastisce la sua ragion d’essere. Da questa sedia mi ritaglio una finestra sul mondo dove le immagini degli uomini che attraversano questa strada, si affastellano ai lati di un crocicchio dove le esistenze sono forse puro pensiero o soltanto un sogno. Di chi? Forse nemmeno il sogno ci appartiene e correndo ci illudiamo di sentire carnalmente la nostra fisicità. Le vene che pulsano, il cuore che batte, il fiato intermittente. Una goccia di sudore, in questa mattina d’estate, mi ricorda che sono vivo, che esisto, che sono presente a me stesso. Stento a crederci. Il pensiero è di per sé il riflesso di qualcos’altro e mentre penso mi sento rifrangere in una dualità scissa, incommensurabilmente, all’interno di una frattura insanabile. Vivo come in uno specchio, su quella soglia fra l’immagine e la realtà dove è impossibile distinguere cosa è il riflesso e cosa, invece, non lo è. A volte penso che sono la stessa cosa, e vorrei essere il vetro dello specchio per essere tutto, sabbia e luce, la realtà e il suo doppio. Chi sono? Sì, un caffè e poi vado via. Le vostre carte, ancora non le avete tirate fuori. All’angolo della strada c’è un uomo distinto, cappello a falde larghe, vestito gessato, nodo perfetto alla cravatta. Impeccabile. Forse è un bancario, o un rappresentante di qualcosa. Di cosa non saprei dire. Che cambia? Le scarpe sono tirate a lucido. Si sarà fermato al Rossio, a quell’angolo con Praça da Figueira dove ogni giorno due uomini curvi, con la schiena piegata dal lavoro e coi capelli imbiancati dal tempo, impugnano le loro armi contro lo sporco di scarpe che hanno solcato percorsi irripetibili. Sono proprio tirate a lucido, con arte quasi certosina. Il nostro uomo dove si recherà? Quale il motivo di tanta eleganza? Chi deve incontrare nel suo peregrinare giornaliero? Quando l’uomo artificiale, ingessato in quell’abito da falsa cerimonia, tornerà ad essere naturale e riporrà la sua maschera sul letto a fine giornata, dopo aver piegato a dovere il suo vestito intriso dei sapori della gente con cui è venuto a contatto, forse riderà e si addormenterà tranquillamente (certo che si addormenterà tranquillamente, potremmo scommetterci) e non si accorgerà che dietro la sua maschera non c’è allegria. L’allegria è finita sotto la suola delle sue scarpe. Si è mascherato per esistere e nessuno lo ha smascherato. Nessuno ha pensato che dietro quel volto potesse esserci dell’altro, un dissimulatore onesto, onesto perché ignaro della sua stessa dissimulazione. Ma anch’io sono una maschera. Forse non è facile distinguerla, ma ne avverto il peso. Il peso di un volto solitario e orgoglioso non privo di vanità. La vanità mi permette di osare, di cambiare fattezze e di essere sempre diverso da me stesso. Impossibile riconoscermi ed essere riconosciuto. Non mi si può riconoscere perché sono tutti i travestimenti insieme e nessuno allo stesso tempo. Il volto dell’esistenza che lineamenti ha? Avevo detto che non si doveva parlare di forme e ne parlo. Ho paura delle forme, le temo più del sapore di questo caffè bollente che ho ordinato e che ancora non arriva. Le forme ingabbiano, classificano, deformano. È in nome delle forme che gli uomini lottano, combattono, uccidono. E tutto per un equivoco: scambiano la forma col contenuto. Ma il contenuto non può avere forma perchè è tutte le forme insieme. È come il bianco, il colore dell’anima, che racchiude in sé ogni possibilità cromatica. L’essere è molteplice. Tutto è l’uno. Sono irritato. Il caffè non arriva. L’attesa sta diventando troppo lunga e il risultato, prevedibilmente, sarà deludente. Anche il sole, così alto e così lucente, comincia a stancarmi. È un’escrescenza quasi perfetta, turbata soltanto dal passaggio indolente di quella piccola audace nuvola solitaria, un David incosciente che sfida Golia. Vorrei essere quella nube solitaria, tanto arrogante da sfidare l’imponente nemico. E invece? Rimango seduto qui, attendendo il caffè, e contemplando l’anonima folla, uno sciame privo di consistenza, un insieme di corpi in movimento che non sanno di non essere nulla, nemmeno corpo. Vorrei per un attimo non sentirmi, esorcizzando le sensazioni. Metterle un attimo da parte e non sentire che sono vivo. A volte mi chiedo se anche le sensazioni non siano frutto di un incessante lavorio del pensiero. È possibile pensare una sensazione? Quando accosterò le labbra all’agognata tazzina e sentirò avvicinarsi il vapore del caffè ancora fumante, mi chiederò se è vera la sensazione di calore che provo sul naso, se i miei baffi si bagneranno davvero, se il caffè è nero e bollente perché lo è o perché è così che lo avverto. Forse le sensazioni non sono reali, ma soltanto giuste, come giusti sono i rumori di questa strada che vive e che non attende nulla, neanche che beva un caffè. I viaggiatori non si sono fermati, la sedia è vuota. La mia mano destra compie un gesto involontario. Sembra che voglia fermare qualcuno. E magari rimarrò ancora un po’qui, in attesa di un nuovo sogno da sognare, aspettando che su questa sedia vuota, in questa affollata strada di Lisbona, venga a sedersi la notte col suo vestito frangiato d’infinito.
E.L.C.

1 commento:

Anonimo ha detto...

mi piacciono molto queste cose e mi piacerebbe essere brava come te.
baci,Gaia!