mercoledì 2 dicembre 2009

Ed amai nuovamente - Umberto Saba




Ed amai nuovamente; e fu di Lina
dal rosso scialle il più della mia vita.
Quella che cresce accanto a noi, bambina
dagli occhi azzurri, è dal suo grembo uscita.

Trieste è la città, la donna è Lina,
per cui scrissi il mio libro di più ardita
sincerità; né dalla sua fu fin ad oggi mai l'anima partita.

Ogni altro conobbi umano amore;
ma per Lina torrei di nuovo un'altra
vita, di nuovo vorrei cominciare.

Per l'altezze l'amai del suo dolore;
perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra,
e tutto seppe, e non se stessa, amare.
Umberto Saba, da Il Canzoniere

martedì 3 novembre 2009

L'étoile du soldat - Un film sull'Afghanistan del 2001



Di Cristophe de Ponfilly
Con Sacha Bourdo, Patrick Chauvel, Mohammad Amin
Dramm., Fra/Ger/Afg 2006, 105’

E’ l’11 settembre del 2001 e dall’alto delle montagne afgane un videoreporter francese (Patrick Chauvel) annota sul suo diario l’incontro con un soldato russo, Nikolai (Sacha Bourdo), conosciuto in Afghanistan nel 1983. Nikolai, un giovane musicista di una cittadina vicino Mosca, è costretto ad arruolarsi nell’esercito russo e ad andare a combattere contro gli Afghani per portare avanti una guerra che non è la sua. Il tutto sotto l’egida degli americani. Il giovane russo, durante un agguato, viene catturato dai Moudjahidin del comandante Massoud (Mohammad Amin), che lo portano nel cuore dell’Afganistan. Nikolai viene risparmiato da Massoud e col tempo diventa uno di loro, combattendo non per una guerra ingiusta, ma per diventare un uomo libero.“L’Etoile du soldat” è la storia di un uomo che ha perduto la sua libertà perché costretto a combattere una guerra fratricida sotto la spinta degli Stati Uniti d’America. Il titolo si riferisce ad una frase pronunciata nel film da Massoud. La stella del soldato è la stella che brilla nel cielo quando un soldato muore, arriverà un giorno in cui le stelle riempiranno la volta del cielo e non ci sarà più la notte. Il regista Christophe De Ponfilly, morto 16 maggio del 2006, ci lascia un’opera straordinaria che smentisce la visione precostituita dell’Afghanistan come covo di terroristi, tramandata dall’Occidente. Esistono episodi di umanità anche laddove sembra tutto irrimediabilmente compromesso. La storia del giovane Nikolai, liberato da Massoud è vera, così come è vero che della guerra spesso rimangono soltanto le immagini e che questa è, in definitiva, soltanto uno spettacolo per sadici spettatori.

Elda Lo Cascio
(l'articolo si trova anche su www.cinematocasa.it)

lunedì 2 novembre 2009

Addio ad Alda Merini, "la piccola ape furibonda" della poesia italiana



Spazio spazio, io voglio, tanto spazio
per dolcissima muovermi ferita:
voglio spazio per cantare crescere
errare e saltare il fosso
della divina sapienza.
Spazio datemi spazio
ch’io lanci un urlo inumano,
quell’urlo di silenzio negli anni
che ho toccato con mano.

Alda Merini, da "Vuoto d'amore"

mercoledì 28 ottobre 2009

L'Angelus Novus di Walter Benjamin attraverso Paul Klee



"C'è un quadro di Klee che s'intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta".

da Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi.

Il tema del doppio nel cinema – Da “Dottor Jekyll e Mr.Hyde" a “Sliding Doors” [di Elda Lo Cascio]



Come per la letteratura, il cinema non è rimasto indifferente al tema del doppio, dallo sdoppiamento della persona e dell’identità a quello, a volte meno inquietante, dello scambio dei ruoli fra persone. Eventi e personaggi, come in uno specchio, si raddoppiano e si intersecano in una realtà proteiforme dove ritrovare la propria identità è impresa piuttosto ardua.

DOTTOR JEKYLL E MR.HYDE
Dal romanzo di Robert L. Stevenson, la storia del Dottor Jekyll scienziato illustre che sperimenta su di sé una pozione da lui inventata per verificare sulla sua persona le teorie psicanalitiche sul doppio. A mezzo della pozione, Jekyll si trasforma ogni notte nel bieco Mr.Hyde, un feroce assassino di prostitute. La versione di Victor Fleming (già regista nel 1939 di “Via col vento”) è meno truce della versione del 1932 di Mamoulian, ma rimane memorabile per le sequenze in cui Jekyll elabora psicanaliticamente lo sdoppiamento della personalità attraverso i sogni deliranti dello scienziato. Spencer Tracy è il fenomenale protagonista del film sull’espressione della dualità insita nell’animo umano, sempre sospeso fra bene e male.(Di Victor Fleming con Spencer Tracy e Ingrid Bergman, horror, Usa 1941, 121 b/n)

LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE – VERTIGO
L’agente Ferguson (James Stewart) è a riposo perché, a causa della sua paura del vuoto, non è riuscito ad impedire la morte di un collega. Un amico di vecchia data lo contatta e gli affida il compito di sorvegliare la moglie (Kim Novak) che ha manifestato manie suicide. Ferguson accetta e pedina la donna per tutta San Francisco, scoprendone la personalità malinconica. Ma durante uno dei suoi appostamenti, Ferguson, vittima delle vertigini, non riuscirà ad impedire alla donna di buttarsi giù da un campanile. Dopo alcuni mesi dal tragico evento, un incontro casuale fra Ferguson e una donna straordinariamente somigliante alla suicida rimetterà tutto in discussione. Un film di amore e morte nello sfondo di un’onirica San Francisco dove i corpi prendono la consistenza di fantasmi, la realtà si duplica in un’atmosfera ipnotica e misteriosa. Straordinaria Kim Novak nel doppio ruolo di Madeleine/Judy.(Di Alfred Hitchcock con James Stewart e Kim Novak, thriller, Usa 1958, 128’)

INSEPARABILI
Elliot e Beverley Mantley (Jeremy Irons) sono due gemelli, affermati ginecologi. I due hanno caratteri diversi: l’uno ci sa fare con le donne, l’altro non proprio. Fisicamante sono però due gocce d’acqua. Questa assoluta somiglianza verrà usata dai due per metter in atto un gioco perverso di seduzione ai danni di Claire, dapprima paziente e amante di Elliot e poi di Beverley, ignara dello scambio. Uno dei migliori film di Cronenberg, in cui il tema dello scambio di identità anticipa lungometraggi in cui il doppio diventa invece sdoppiamento dell’identità di un solo individuo, come in “MButterfly” con Jeremy Irons o nel recentissimo “A history of violence” con Viggo Mortensen. “Inseparabili” è ispirato alla storia vera dei gemelli Steven and Cyril Marcus, suicidatisi entrambi con dei barbiturici nell’Upper East Side di Manhattan negli anni ’70.(Di David Cronenberg con Jeremy Irons, drammatico, Can 1988, 111’)

LA DOPPIA VITA DI VERONICA
Kieslowski ha caro il tema dei destini incrociati e delle vite parallele che, inconsapevoli le une delle altre, vivono gli stessi eventi e si ricongiungono attraverso un filo invisibile, come se le trame della nostra esistenza fossero già predisposte da Qualcun altro e attendessero soltanto di essere messe in atto da noi, ignari protagonisti. A Cracovia vive Veronika, una ventenne dalla voce bellissima. Veronika vive per il canto e morirà cantando durante un’esibizione in pubblico per via del suo debole cuore. Véronique è francese, ma è identica a Veronika e soffre della sua stessa patologia cardiaca. Per uno scherzo del destino Véronique abbandona il canto e si rifugia nell’amore, scampando così al tragico destino del suo alter ego polacco. Iréne Jacob, nel doppio ruolo di Veronika e Véronique, è stata premiata a Cannes nel 1991 come Miglior Attrice Protagonista.(Di Krzysztof Kieslowski con Irène Jacob, drammatico, Pol/Fra 1991, 98’)


FACE/OFF
Lo sdoppiamento della personalità attraverso il cambiamento dell fattezze fisiche. Sean Archer (John Travolta), agente dell’FBI, si trova di fronte a Castor Troy (Nicolas Cage), un pericoloso terrorista che gli ha ucciso il figlio in un’azione precedente. Quando il terrorista entra in coma, Sean ne approfitta e grazie ad un intervento chirurgico riesce a prendere le sembianze del criminale per tentare di neutralizzare la bomba da lui innescata. Ma il criminale si risveglia e prende il posto di Sean a lavoro e in famiglia. Il fascino di “Face/Off” consiste soprattutto nelle scene d’azione in cui il regista Jon Woo riesce a dare il meglio di sé grazie a due interpreti d’eccezione come John Travolta e Nicolas Cage, intrappolati in uno sdoppiamento di personalità che ha tutto il sapore della vendetta.(Di Jon Woo con Nicolas Cage e John Travolta, azione, Usa 1997, 137’)

SLIDING DOORS
Due film in uno. Due epiloghi diversi sulla base di scelte diverse. Tutto ciò che ci accade è conseguenza di una nostra azione, più o meno inconsapevole. Tutto accade per caso, o meglio, per volere del Caso. Le porte scorrevoli della metropolitana di Londra fanno da spartiacque per i destini paralleli vissuti da Helen (Gwyneth Paltrwow) nella stessa giornata. Cosa accadrebbe alla bella Helen se invece di tornare a casa in anticipo dopo essere stata licenziata, avesse perso del tempo? Non avrebbe trovato il fidanzato a letto con un’altra e per lei sarebbe stata tutta un’altra storia… Il film si ispira a “Destino cieco” (1987) del regista polacco Krzysztof Kieslowski. (Di Peter Howitt con Gwyneth Paltrow, commedia, Gbr 1998, 99’)

E.L.C.

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martedì 27 ottobre 2009

La Cina secondo Gianni Amelio: "La stella che non c’è" [di Elda Lo Cascio]



A due anni da “Le chiavi di casa” Gianni Amelio ritorna nel 2006 alla regia con il lungometraggio “La stella che non c’è”, film che racconta la storia di Vincenzo Buonavolontà, un tecnico di una fabbrica italiana, che si reca in Cina per avvertire gli acquirenti della fabbrica che manca un pezzo importante nella fornace. Senza questo pezzo la fornace potrebbe diventare estremamente pericolosa. Una volta in Cina, l’uomo si trova di fronte all’impossibilità di comunicare con quel mondo caotico e sconosciuto e, compiendo un viaggio attraverso il pianeta-Cina, comincerà a riflettere su se stesso.Gianni Amelio racconta la Cina della vertiginosa esplosione capitalistica, la Shanghai che si estende a macchia d’olio con una densità di popolazione inquietante. Ha detto Amelio che il viaggio in Cina è stata un’esperienza fortissima vissuta con dei compagni ideali di viaggio come Sergio Castellitto e Tai Ling. Il film coniuga due aspetti noti della regia di Amelio, quello documentaristico quando descrive la Cina e i cinesi, e quello della finzione, la storia di Vincenzo Buonavolontà e il suo incontro con Liu, l’interprete che lo accompagnerà nel suo itinerario di scoperta. Per la prima volta nella sua carriera Gianni Amelio sostiene di essersi immedesimato nel protagonista del suo film, un personaggio colmo di tenerezza che lo ha “protetto” nei momenti di dubbio durante le riprese. Il regista ha voluto che gli occhi dell’attore coincidessero in maniera profonda con quelli della regia. Amelio guarda la Cina attraverso gli occhi di Vincenzo Buonavolontà, un Castellitto che ha dichiarato di non essersi sentito mai così amato da un regista come da Gianni Amelio in “La stella che non c’è”. E questa stella, il pezzo mancante della fabbrica ceduta ai cinesi, non rappresenta soltanto la riscoperta di una manualità operaia nella contemporanea “galassia Gutenberg”, ma il gusto e la possibilità che ognuno di noi ha di ritrovare ciò che gli manca e di cui sente il bisogno. Un film dunque scevro da ogni pessimismo, nonostante l’apparente clima di disillusione. Per chiarire qualunque fraintendimento sul senso del film, Gianni Amelio ha voluto citare il finale di “Porte aperte”, suo film precedente: “Ho fiducia, nonostante tutto”.

E.L.C.

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Bocca di rosa nella versione siciliana di Mario Incudine



Mario Incudine ricrive il mito!
Attenzione a questo giovane artista siciliano...un talento!

venerdì 23 ottobre 2009

Walking around - Omaggio a Pablo Neruda



Walking Around

Sucede que me canso de ser hombre.
Sucede que entro en las sastrerías y en los cines
marchito, impenetrable, como un cisne de fieltro
Navegando en un agua de origen y ceniza.
El olor de las peluquerías me hace llorar a gritos.
Sólo quiero un descanso de piedras o de lana,
sólo quiero no ver establecimientos ni jardines,
ni mercaderías, ni anteojos, ni ascensores.
Sucede que me canso de mis pies y mis uñas
y mi pelo y mi sombra.
Sucede que me canso de ser hombre.
Sin embargo sería delicioso
asustar a un notario con un lirio cortado
o dar muerte a una monja con un golpe de oreja.
Sería bello
ir por las calles con un cuchillo verde
y dando gritos hasta morir de frío
No quiero seguir siendo raíz en las tinieblas,
vacilante, extendido, tiritando de sueño,
hacia abajo, en las tapias mojadas de la tierra,
absorbiendo y pensando, comiendo cada día.
No quiero para mí tantas desgracias.
No quiero continuar de raíz y de tumba,
de subterráneo solo, de bodega con muertos
ateridos, muriéndome de pena.
Por eso el día lunes arde como el petróleo
cuando me ve llegar con mi cara de cárcel,
y aúlla en su transcurso como una rueda herida,
y da pasos de sangre caliente hacia la noche.
Y me empuja a ciertos rincones, a ciertas casas húmedas,
a hospitales donde los huesos salen por la ventana,
a ciertas zapaterías con olor a vinagre,
a calles espantosas como grietas.
Hay pájaros de color de azufre y horribles intestinos
colgando de las puertas de las casas que odio,
hay dentaduras olvidadas en una cafetera,
hay espejos
que debieran haber llorado de vergüenza y espanto,
hay paraguas en todas partes, y venenos, y ombligos.
Yo paseo con calma, con ojos, con zapatos,
con furia, con olvido,
paso, cruzo oficinas y tiendas de ortopedia,
y patios donde hay ropas colgadas de un alambre:
calzoncillos, toallas y camisas que lloran
lentas lágrimas sucias.

Pablo Neruda

Succede che mi stanco di essere uomo
Succede che entro nelle sartorie e nei cinema
avvizzito, impenetrabile, come un cigno di feltro
che naviga in un’acqua di origine e di cenere.

L’odore dei barbieri mi fa piangere e stridere
Voglio solo un riposo di ciottoli o di lana
Non voglio più vedere stabilimenti e giardini
Mercanzie, occhiali e ascensori.

Succede che mi stanco dei miei piedi e delle mie unghie
E dei miei capelli e della mia ombra
Succede che mi stanco di essere uomo.

Tuttavia sarebbe delizioso
Spaventare un notaio con un giglio reciso
O dar morte a una monaca con un colpo d’orecchio.
Sarebbe bello andare per le vie con un coltello verde
E gettar grida fino a morir di freddo.

Non voglio essere più radice nelle tenebre,
barcollante, con brividi di sonno, proteso all’ingiù,
nelle fradice argille della terra
assorbendo e pensando, mangiando tutti i giorni.

Non voglio per me tante disgrazie
Non voglio essere più radice e tomba
Sotterraneo deserto, stiva di morti,
intirizzito, morente di pena.

E perciò il lunedì brucia come il petrolio
Quando mi vede giungere col mio volto di carcere
E urla nel suo corso come ruota ferita
E muove passi di sangue caldo verso la notte.

E mi spinge in certi angoli, in certe case umide,
in ospedali dove le ossa escono dalla finestra,
in certe calzolerie che puzzano d’aceto
in strade spaventose come crepe.

Vi sono uccelli color zolfo e orribili intestini
Appesi alle porte delle case che odio,
vi sono dentiere dimenticate in una caffetteria
vi sono specchi
che avrebbero dovuto piangere di vergogna e spavento,
vi sono ombrelli dappertutto e veleni e ombelichi.
Io passeggio con calma, con occhi, con scarpe,
con furia, con oblio
passo attraverso uffici e negozi ortopedici
e cortili con panni tesi a un filo metallico:
mutande, camicie e asciugamani che piangono
lente lacrime sporche.

Il finale de "La doppia vita di Veronica" (1991) di Kristof Kieslowski

Il nuovo film di animazione Disney-Pixar: UP! in 3D



Presentato in anteprima allo scorso Festival del Cinema di Cannes, è uscito nelle sale "UP!",ultimo capolavoro Disney-Pixar in 3D!

giovedì 22 ottobre 2009

Il labirinto nella sua forma attuale: il rizoma


Ogni epoca elabora e ricostruisce labirinti, alcune forme permangono, altre scompaiono.
Alla forma del labirinto cretese se ne sono affiancate altre che da quella hanno tratto il proprio humus.
La forma si adatta ai mutati e mutevoli bisogni della società, a nuove esigenze di “senso”.
L’età contemporanea frammenta le forme e le sovrappone senza più possibilità di scorgervi un’entrata e un’ uscita, un senso di percorrenza, un centro che sia immobile, un dentro e un fuori.
La società odierna ha prodotto i rizomi di cui parlano Deleuze e Guattari e di cui Eco ha fornito un’affascinante definizione: “(…) il rizoma, o la rete infinita, dove ogni punto può connettersi ad ogni altro e la successione delle connessioni non ha termine teorico perché non esiste più un esterno o un interno: in altri termini, il rizoma può proliferare all’infinito. Inoltre potremmo immaginarlo come una palla di burro, senza confini, all’interno della quale posso perforare senza troppa fatica una parete che separa due condotti creando per ciò stesso un nuovo condotto. Il che equivale a dire che nel rizoma anche le scelte sbagliate producono soluzioni e insieme contribuiscono a complicare il problema. Se anche una Mente può aver pensato il rizoma, non ne avrà però pensata e stabilita in anticipo la struttura. Il rizoma è come un libro in cui ogni lettura cambi l’ordine delle lettere e produca un nuovo testo”.
E.L.C.

Cit. da Umberto Eco, Prefazione a Paolo Santarcangeli, Il libro dei labirinti, pp. XIII-XIV.

mercoledì 21 ottobre 2009

L'assurdo non sono le cose...- ainda Cortàzar



"Ma certo - disse Oliveira - Chi te lo nega? ma quel che non capiamo è per quale ragione deve capitare così, per quale ragione noi siamo qui e fuori sta piovendo. L'assurdo non sono le cose, l'assurdo è che le cose siano lì e noi le si senta assurde. A me sfugge la relazione fra me e quel che mi sta capitando in questo momento. Non ti nego che mi stia capitando. Altroché, mi capita. E questo è l'assurdo".

Da Julio Cortàzar, "Il gioco del mondo" [Rayuela]

Gracias a la vida - Tributo a Mercedes Sosa (1935-2009)




Gracias a la vida, que me ha dado tanto.
Me dio dos luceros, y cuando los abro,
perfecto distingo lo negro del blanco,
y en el alto cielo su fondo estrellado,
y en las multitudes al hombre que yo amo.
Gracias a la vida, que me ha dado tanto.
Me ha dado el odo que, en todo su ancho,
graba noche y da ros y canarios
martillos, turbinas, ladridos, chubascos,
y la voz tan tierna de mi bien amado.
Gracias a la vida, que me ha dado tanto,
me ha dado el sonido y abecedario.
Con l las palabras que pienso y declaro,
"padre,", "amigo," "hermano," y est alumbrando
la ruta del alma del que estoy amando.
Gracias a la vida, que me ha dado tanto.
Me ha dado la marcha de mis pies cansados.
Con ellos anduve ciudades y charcos,
valles y desiertos, montaas y llanos,
y la casa tuya, tu calle y tu patio.
Gracias a la vida que me ha dado tanto
Me dio el corazn, que agita su marco.
Cuando miro el fruto del cerebro humano,
cuando miro al bueno tan lejos del malo.
Cuando miro el fondo de tus ojos claros.
Gracias a la vida que me ha dado tanto.
Me ha dado la risa, me ha dado el llanto.
As yo distingo dicha de quebranto,
todos materiales que forman mi canto,
y el canto de ustedes que es es mismo canto.
y el canto de ustedes que es mi propio canto

mercoledì 14 ottobre 2009

Insensatez - Omaggio ad Antonio Carlos Jobim



INSENSATEZ
A insensatez
Que você fez
coração mais sem cuidado
Fez chorar de dor
o seu amor um amor
tão delicado
Ah porque você
foi fraco assim
assim tão desalmado
Ah, meu coração
quem nunca amou
não merece ser amado
Vai meu coração
ouve a razão
usa só sinceridade
Quem semeia vento,
diz a razão,
colhe sempre tempestade
Vai meu coração
pede perdão
perdão apaixonado
Vai porque quem não
pede perdão
não é nunca perdoado

martedì 6 ottobre 2009

Una storia di cronopios da Julio Cortàzar



"Come va, Lòpez"

Un signore incontra un amico e lo saluta, gli stringe la mano e fa un leggero cenno con il capo.
È così che crede di averlo salutato, ma il saluto è già stato inventato e il signore educato non fa che calzare il saluto.
Piove. Un signore si rifugia sotto un portone. Quasi mai i signori come lui sanno che in fin dei conti sono scivolati su un toboga prefabbricato dalla prima goccia di pioggia al primo portone. Un umido toboga di foglie fradice.
E i gesti dell’amore, questo dolce museo, questa galleria di figure di fumo. Si consoli la tua vanità: la mano di Antonio cercò quel che cerca la tua mano, e né la sua né la tua cercavano qualcosa che non sia già stato trovato fin dall’eternità. Ma le cose invisibili hanno bisogno di incarnarsi, le idee cadono a terra come colombe morte.
Ciò che è veramente nuovo fa paura o meraviglia.
Queste due sensazioni ugualmente vicine alla bocca dello stomaco accompagnano sempre la presenza di Prometeo; quel che resta è la comodità, quel che riesce sempre più o meno bene; i verbi attivi contengono il repertorio completo.
Amleto non dubita: cerca la soluzione autentica e non il portone di casa o le vie già percorse – nonostante tutte le scorciatoie e i crocicchi che offrono.
Vuole la tangente che incrina il mistero, la quinta foglia del trifoglio. Fra il sì e il no, quale infinita rosa dei venti. I principi di Danimarca, falchi che scelgono la morte per fame piuttosto che cibarsi di carne morta.
Quando le scarpe stringono, buon segno. C’è qualcosa che cambia, qualcosa che ci mostra, che sordamente ci pone, ci imposta. Per questo i mostri sono tanto popolari e i giornali vanno in estasi per un vitello bicefalo. Quale opportunità, quale abbozzo di gran salto verso l’altro!
Guarda chi si vede.
- Come va, Lòpez?
- Come va, carissimo?
È così che credono di essersi salutati.

Da Julio Cortàzar, Storie di cronopios e di famas

lunedì 5 ottobre 2009

Un viaggio nell'universo cinema: saltellando da “I quattrocento colpi” a “Billy Elliot” [di Elda Lo Cascio]



I QUATTROCENTO COLPI
Il primo lungometraggio di Truffaut ed anche il primo dei film incentrati sul personaggio di Antoine Doinel, interpretato da Jean-Pierre Léaud attore feticcio e alter ego del regista francese. Antoine è un ragazzino ribelle, incompreso e solo, marina la scuola, compie dei piccoli furti con un gruppo di amici, finchè non è sorpreso a rubare una macchina da scrivere e viene rinchiuso in riformatorio. Il ragazzo non potrà fare a meno di evadere dalla prigione, correndo da solo verso un orizzonte di libertà e redenzione. "I quattrocenti colpi" è uno dei film su cui si è fondata la nouvelle vague francese, nonché un atto d´amore verso la vita, come ebbe a dire Truffaut a proposito di questo film. Gran Premio speciale della Giuria a Cannes nel 1959.(Di François Truffaut con Jean-Pierre Léaud, drammatico, Francia 1959, 93´ b/n)

CENTRAL DO BRASIL
Orso d´oro al Festival del Cinema di Berlino e Oscar come Miglior Film Straniero nel 1997, "Central do Brasil" è un road movie incentrato sulla solidarietà fra i due protagonisti che non scade mai nel patetico. Dora è un´ex-insegnante che arrotonda il salario scrivendo lettere per gli altri. Lo fa anche per Ana e suo figlio Josuè. Quando Ana muore in un incidente, Josuè e Dora partono alla ricerca del padre che il bambino non ha mai conosciuto. Nel viaggio dei due, lo sguardo disincantato di un bimbo che dalla vita ha avuto poco, ma che della vita sa prendere la parte migliore.(Di Walter Salles con Vinicius De Oliveira, drammatico, Brasile 1997, 110´)

BILLY ELLIOT
Billy Elliot, un ragazzino di undici anni, vive in una città dell´Inghilterra del Nord in lotta continua contro i proprietari delle miniere. Il padre di Billy è un minatore, così come suo fratello. Tutti, nella sua città, fanno questo mestiere. Ma Billy è attratto dalla danza classica e la sua aspirazione è quella di diventare un eccellente ballerino. Per la famigliaaccetterà malvolentieri la notizia della passione di Billy. Jamie Bell, il giovanissimo protagonista del film, è stato realmente oggetto di scherno da parte dei suoi coetanei quando a scuola ha cominciato a interessarsi alla danza, proprio come il personaggio che ha interpretato in "Billy Elliot". In origine il titolo del film doveva essere "Dancer", cioè "Ballerino".(Di Stephen Daldry con Jamie Bell, commedia/drammatico, Gbr 2000, 110´)


VALENTIN
A Buenos Aires vive il piccolo Valentin con la nonna che lo ha cresciuto da quando aveva tre anni. La madre di Valentin era andata via di casa, affidandole il bambino. Il ragazzino, a nove anni, decide di essere abbastanza grande per saperne di più sulla scomparsa della madre, ma nessuno ha intenzione di rivelargli il passato. Valentin, che nutre il sogno di diventare un astronauta, decide allora di concentrare tutte le sue energie su un rigido allenamento.Tutte le scene del film sono commentate dalla voce fuori campo del piccolo protagonista che elargisce bizzarre metafore sul mondo e sulle persone. Per il ruolo di Valentin sono stati fatti provini a più di trecento bambini.(Di Alejandro Agresti con Rodrigo Noya e Carmen Maura, commedia, Arg/Spa 2002, 86´)

IO NON HO PAURA
La vita vista con gi occhi dei bambini dove lo sguardo sulla vigliaccheria e la crudeltà degli adulti risulta impietoso. La storia è quella di Michele che, in un piccolo paese della Basilicata, scopre un´atroce verità: gli adulti del villaggio tengono segregato in un pozzo un ragazzino. Sarà Michele a prendersi cura di Filippo, finché non scoprirà che Filippo si trova lì perché è stato rapito."Io non ho paura" è tratto dal romanzo omonimo di Niccolò Ammaniti che ha firmato anche la sceneggiatura. Mattia Di Pierro, che interpreta Filippo, ha detto che per lui quel pozzo rappresentava la tristezza e la solitudine.(Di Gabriele Salvatores con Mattia Di Pierro, drammatico, Italia 2003, 104´)

Elda Lo Cascio

In the mood for love (unofficial trailer)



Estetismo puro ad opera di Wong Kar-Wai.

sabato 3 ottobre 2009

Nostalgia del presente di Jorge Luis Borges



In quel preciso momento l’uomo si disse:
che cosa non darei per la gioia
di stare al tuo fianco in Islanda
sotto il gran giorno immobile
e condividerlo adesso
come si condivide la musica
o il sapore di un frutto.
In quel preciso momento
l’uomo le stava accanto in Islanda

Jorge Luis Borges

giovedì 1 ottobre 2009

Le conseguenze dell'amore [di Elda Lo Cascio]













Di Paolo Sorrentino
Con Toni Servillo, Raffaele Pisu, Olivia Magnani
Drammatico, Ita 2004, 100’


E’ ambientato a Lugano “Le conseguenze dell’amore”, il secondo lungometraggio del regista napoletano Paolo Sorrentino presentato a Cannes nel 2004.
Il protagonista è Titta Di Girolamo (Toni Servillo), un uomo di cinquant’anni dal nome frivolo, ma con una vita, a suo dire, noiosa. Di Girolamo vive da quasi dieci anni in Svizzera, lontano dalla famiglia, fa uso di eroina una volta la settimana (ma non per questo si definisce un drogato), appartiene alla “setta” degli insonni. A interrompere la routine quotidiana ci sono le cene con gli ex proprietari dell’albergo, ormai caduti in disgrazia, gli sguardi della bella barista dell’hotel (Olivia Magnani), di cui Titta si innamora, e l’arrivo periodico di una valigia il cui contenuto viene depositato da Di Girolamo in persona in una banca svizzera.
Alla prima parte del film, incentrata sulla vita del protagonista e sulla sua monotona routine quotidiana, fa da contraltare la seconda, più dinamica, in cui irrompe nella vita di Titta la malavita organizzata per cui presta “servizio” da anni. A metterlo nei guai sarà l’amore (o ciò che Di Girolamo pensa di provare) per la barista, della cui vita Titta in realtà non conosce nulla, ma che l’uomo vuol conquistare o “comprare” (come gli rimprovera lei in un dialogo davanti ad un’automobile da centomila dollari) con regali e denaro.
In un mondo fatto di solitudine, di gesti meccanici e ripetitivi, in cui l’assenza di un dialogo vero segna inevitabilmente le vite dei protagonisti, l’unico modo che Titta conosce per relazionarsi con gli altri è quello che ha imparato lavorando per la malavita.
La sottrazione di denaro sporco verrà pagato a caro prezzo da Titta Di Girolamo, che subirà le conseguenze della propria ontologica incapacità di amare autenticamente: ma sarà proprio perdendo la vita che Di Girolamo, paradossalmente, riuscirà a riappropriarsene.

Elda Lo Cascio (1/10/2009)

Il finale di "Io e Annie" di Woody Allen



Una spiegazione del tutto "razionale" al perchè esistano i rapporti (del tutto irrazionali) fra uomini e donne!

venerdì 25 settembre 2009

Le tourbillon de la vie - Jeanne Moreau in "Jules et Jim" di François Truffaut



Le tourbillon

Elle avait des bagues à chaque doigt,
Des tas de bracelets autour des poignets
Et puis elle chantait avec une voix
Qui, sitôt, m'enjola.
Elle avait des yeux, des yeux de paille
Qui m'fascinaient, qui m'fascinaient.
Y avait l'ovale d'son visage pale
De femme fatale qui m'fut fatal. (bis)
On s'est connu, on s'est reconnu,
On s'est perdu d'vue, on s'est r'perdu d'vue.
On s'est retrouvé, on s'est réchauffé
Puis on s'est séparé.
Chacun pour soi est reparti
Dans l'tourbillon d'la vie.
Je l'ai revue un soir aïe aïe aïe
Ca fait déjà un fameux bail. (bis)
Au son des banjos, je l'ai reconnu,
Ce curieux sourire qui m'avait tant plu.
Sa voix si fatale, son beau visage pâle
M'émurent plus que jamais.
Je m'suis saoulé en l'écoutant.
L'alcool fait oublier le temps.
Je m'suis reveillé en sentant
Des baisers sur mon front brulant. (bis)
On s'est connu, on s'est reconnu.
On s'est perdu d'vue, on s'est r'perdu d'vue.
On s'est retrouvé, on s'est réchauffé
Puis on s'est séparé.
Chacun pour soi est reparti
Dans l'tourbillon d'la vie.
Je l'ai revue un soir ah la la
Elle est retombée dans mes bras. (bis)
Quand on s'est connu, quand on s'est reconnu,
Pourquoi s'perdre de vue, se reperdre de vue ?
Quand on s'est retrouvé, quand on s'est réchauffé,
Pourquoi se séparer ?
Alors, tous deux, on est r'parti
Dans l'tourbillon d'la vie.
On a continué à tourner
Tous les deux enlacés. (ter)

giovedì 24 settembre 2009

Le stelle polari di David Foster Wallace


Può la letteratura essere un antidoto alla solitudine? Può un essere umano sentirsi compreso da poeti, filosofi e scrittori? Certi scrittori e certe pagine di letteratura fanno questo effetto. L’effetto è quello di sentirsi profondamente a contatto con un’altra esistenza, un’altra spiritualità, oltrepassando i limiti fenomenici dello spazio e del tempo.
Questi erano i compagni di viaggio di David Foster Wallace (1962-2008), una delle menti più acute della letteratura contemporanea, di cui si sente la mancanza:

L’Apologia di Socrate di Platone
La poesia di John Donne e di Richard Crashaw
Raymond Carver
Moby Dick e Il grande Gatsby
Shakespeare, a volte
Il discorso sul metodo di Cartesio
I Prolegomena di Kant
Il Tractatus di Wittgenstein
Il ritratto dell’artista da giovane di James Joyce
Hemingway e Steinbeck Cormac McCarthy, Don DeLillo, A.S.Byatt e Cynthia Ozick
Philip Larkin, Louise Gluck e Auden

E.L.C.

mercoledì 16 settembre 2009

Il cinema perde il regista Luciano Emmer. A lui l'omaggio di Cinematocasa





www.youtube.com/watch?v=h9fRar9N8zM

Sostiene Pereira: l’io egemone e la confederazione delle anime


"Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere "uno" che fa parte a sé, staccato dall'incommensurabile pluralità dei propri io rappresenta un'illusione,peraltro ingenua, di un'anima di tradizione cristiana; il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone. Il dottor Cardoso fece una piccola pausa e poi continuò: quella che viene chiamata la norma, o il nostro essere, o la normalità è solo un risultato, non una premessa e dipende dal controllo di un io egemone che si è imposto nella confederazione delle nostre anime nel caso che sorga un altro io, più forte e più potente. Codesto io spodesta l'io egemone e ne prende il posto passando a dirigere la coorte delle anime, meglio la confederazione, e la preminenza si mantiene fino a quando non viene spodestato a sua volta da un altro io egemone, per un attacco diretto o per una paziente erosione. Forse, concluse il dottor Cardoso, dopo una paziente erosione c’è un io egemone che sta prendendo la testa della confederazione delle sue anime, dottor Pereira e lei non può farci nulla, può solo, eventualmente, assecondarlo”.

Da Antonio Tabucchi, “Sostiene Pereira”.

martedì 15 settembre 2009

“Ciò di cui questo paese ha bisogno” – Una riflessione di Groucho Marx sugli Usa del 1940


[…]Il paese ha davvero bisogno di un buon panino al prosciutto. Mi riferisco al semplice, tradizionale(oramai obsoleto) panino al prosciutto, che era un’ istituzione nazionale prima che il barista lo rovinasse con la sua mania di fare esperimenti. Come esperimento, ieri sono andato al bar e ho ordinato un panino al prosciutto.
“Prosciutto con che cosa?” mi ha chiesto.
“Caffè” ho detto.
“Voglio dire, prosciutto con tonno, prosciutto con sardine e pomodoro o prosciutto, pancetta e broccoli? Con insalata di verza cruda o di patate?”.
“Solo prosciutto” ho implorato. ”Un semplice panino al prosciutto, senza pomodoro né lattuga”.
Il giovanotto sembrava perplesso ed è andato a consultarsi con il capo, che mi ha guardato in cagnesco finché non me ne sono andato.
Questo è il tipo di difficoltà che il paese si ritrova a dover affrontare.

“This Week”, 16 giugno 1940

lunedì 14 settembre 2009

Pasolini e il calcio



Pasolini e il calcio
« ... Ci può essere un calcio come linguaggio fondamentalmente prosastico e un calcio come linguaggio
fondamentalmente poetico. Per spiegarmi, darò – anticipando le conclusioni – alcuni esempi: Bulgarelli gioca un calcio in prosa: egli è un «prosatore realista»; Riva gioca un calcio in poesia: egli è un «poeta realista». Corso gioca un calcio in poesia, ma non è un «poeta realista»: è un poeta un po’ maudit, extravagante. Rivera gioca un calcio in prosa: ma la sua è una prosa poetica, da «elzeviro». Anche Mazzola è un elzevirista, che potrebbe scrivere sul «Corriere della Sera»: ma è più poeta di Rivera; ogni tanto egli interrompe la prosa, e inventa lì per lì due versi folgoranti.
Si noti bene che tra la prosa e la poesia non faccio distinzione di valore; la mia è una distinzione puramente tecnica. Tuttavia intendiamoci: la letteratura italiana, specie recente, è la letteratura degli «elzeviri»: essi sono eleganti e al limite estetizzanti: il loro fondo è quasi sempre conservatore e un po’ provinciale… insomma, democristiano.
Fra tutti i linguaggi che si parlano in un Paese, anche i più gergali e ostici, c’è un terreno comune: che è la «cultura»
di quel Paese: la sua attualità storica. Così, proprio per ragioni di cultura e di storia, il calcio di alcuni popoli è fondamentalmente in prosa: prosa realistica o prosa estetizzante (quest’ultimo è il caso dell’Italia): mentre
il calcio di altri popoli è fondamentalmente in poesia. Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del "goal". Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. In questo momento lo è Savoldi. Il calcio che esprime più goals è il calcio più poetico ... »
(Da "Pagine corsare", Pier Paolo Pasolini: “Il calcio «è» un linguaggio con i suoi poeti e prosatori”)

giovedì 10 settembre 2009

"L’erba: sull’erba non ho niente da dire" - Omaggio a Raymond Queneau














«L’herbe: sur l’herbe je n’ai rien à dire»

L’herbe: sur l’herbe je n’ai rien à dire
mais encore quels sont ces bruits
ces bruits du jour et de la nuit
Le vent: sur le vent je n’ai rien à dire

Le chêne: sur le chêne je n’ai rien à dire
mais qui donc chantonne à minuit
qui donc grignote un pied du lit
Le rat: sur le rat je n’ai rien à dire

Le sable: sur le sable je n’ai rien à dire
mais qu’est-ce qui grince? c’est l’huis
qui donc halète? sinon lui
Le roc: sur le roc je n’ai rien à dire

L’étoile: sur l’étoile je n’ai rien à dire
c’est un son aigre comme un fruit
c’est un murmure qu’on poursuit
La lune: sur la lune je n’ai rien à dire

Le chien: sur le chien je n’ai rien à dire
c’est un soupir et c’est un cri
c’est un spasme un charivari
La ville: sur la ville je n’ai rien à dire

Le cœur: sur le cœur je n’ai rien à dire
du silence à jamais détruit
le sourd balaye les débris
Le soleil: ô monstre, ô Gorgone, ô Méduse
ô soleil.

Chêne et chien (1937)


«L’erba: sull’erba non ho niente da dire»

L’erba: sull’erba non ho niente da dire
ma ancora che sono queste botte
queste botte del giorno e della notte
Il vento: sul vento non ho niente da dire

La quercia: sulla quercia non ho niente da dire
ma chi dunque canticchia a mezzanotte
chi dunque rosicchia il piede del letto
Il topo: sul topo non ho niente da dire

La sabbia: sulla sabbia non ho niente da dire
ma cos’è che cigola? è l’uscio
chi dunque ansima? se non lui
La roccia: sulla roccia non ho niente da dire

La stella: sulla stella non ho niente da dire
è un suono agro come un frutto
è un mormorio che vuole tutto
La luna: sulla luna non ho niente da dire

Il cane: sul cane non ho niente da dire
è un sospiro è un grido
è uno spasimo uno strido
La città: sulla città non ho niente da dire

Il cuore: sul cuore non ho niente da dire
del silenzio per sempre fatto a pezzi
il sordo scopa via i resti
Il sole: o mostro, o Gorgone, o Medusa
o sole.

Traduzione di Marco Munaro

mercoledì 9 settembre 2009

Badly Drawn Boy - Silent Sigh





Come see what we all talk about
People moving to the moon
Stop baby don't go stop here
Never stop living here
Till it eats the heart from your soul
Keeps down the sound of your
Silent sigh
Silent sigh, silent sigh silent sigh
Keeps down all move me down
Could we love each other

Come see what we all talk about
People moving to the moon
Stop baby don't go stop here
Never stop living here
Till it eats the heart from your soul
Keeps down the sound of your
Silent sigh
Silent sigh, silent sigh silent sigh
Keeps down all move me down
But don't love each other
No don't love each other
Never gonna be the same

Il capitalismo secondo Michael Moore

Una Los Angeles noir per "The Black Dahlia" [di Elda Lo Cascio]



Di Brian De Palma
Con Scarlett Johansson, Aaron Eckhart, Hilary Swank, Josh Hartnett
Noir, Usa 2006, 120’


Siamo nel 1947 in una Los Angeles funestata dal crimine. Bucky Bleichert (Josh Hartnett) e Lee Blanchard (Aaron Eckhart) sono due ex pugili ("Ice" e "Fire", "ghiaccio" e "fuoco", come i loro caratteri, diversi ma complementari) che si sfidano per l’ultima volta sul ring, scommettendo una somma di denaro sul loro incontro. Con il denaro vinto, Bucky può permettersi di mandare il padre malato in una casa di cura; nel frattempo viene assunto dalla polizia di Los Angeles. Bucky lavorerà in coppia con Lee, suo collega al commissariato di polizia. Ma la loro vita viene messa in crisi dal brutale assassinio di un’aspirante attricetta di Hollywood, Elizabeth Short (Mia Kirshner), soprannominata la "Dalia Nera".

Sullo sfondo di una Los Angeles cupa e dalle atmosfere noir, si intrecciano le storie di personaggi misteriosi, dalla bionda Kay Lake (Scarlett Johanssonn), diventata la donna di Lee dopo essere stata la preferita di un boss della Malavita organizzata, e una donna dalla vita torbida e ambigua (Hilary Swank), che sembra avere a che fare con la morte della Dalia Nera. La chiave di volta del misterioso omicidio, in un mondo di miserabili, sta ne “L’uomo che ride” di Victor Hugo, nella sua versione cinematografica degli anni ’20.
In questo, il film di De Palma sforna un finale diverso dal romanzo di Ellroy che lascia aperto il caso, così come davvero avvenne nel 1947 a Los Angeles.
L'americano James Ellroy, autore del romanzo “The Black Dahlia”, da cui è tratta la sceneggiatura del film, non è nuovo a vedere realizzare versioni cinematografiche dai suoi scritti. Il precedente “L.A.Confidential” era stato portato sul grande schermo nel 1997 da Curtis Hanson ed aveva vinto un Oscar proprio per la migliore sceneggiatura (oltre quello per la Migliore Attrice Protagonista a Kim Basinger).Dai romanzi di Ellroy emerge il lato oscuro di Los Angeles, dove il crimine, il sesso e le psicosi sono protagonisti assoluti della vita associata e dove Hollywood non corrisponde all’immagine edenica che tutti ammiriamo. Neppure quelli che definiremmo “eroi” sembrano essere del tutto esenti dal peso del peccato; comunque, il loro passato (se non il presente), è contaminato da delitti e affari illeciti.
Detto questo, pare difficile immaginare che la Los Angeles filmata da Brian De Palma sia stata ricostruita interamente a Sofia, in Bulgaria. Complimenti al nostro Dante Ferretti che ha fatto un ottimo lavoro di ricostruzione di interi quartieri della città. Ma voi spettatori quando, guardando “The Black Dahlia”, scorgerete le colline di Hollywood, non lasciatevi ingannare dalla finzione scenica: quelle sono le colline di Sofia.
Sito ufficiale del film: www.theblackdahliamovie.net

Elda Lo Cascio
(L'articolo è anche su www.cinematocasa.it)

lunedì 7 settembre 2009

"Licantropia" - Omaggio a Fernando Pessoa


"Licantropia"


In qualche luogo i sogni diventeranno realtà. C’è un lago solitario
Illuminato dalla luna per me e per te
Come nessuno per noi soli.

Lì la scura vela spiegata in un vago vento non sentito
Guiderà la nostra vita-sonno
Laddove le acque si fondono

In un lido di neri alberi,
Dove boschi sconosciuti vanno incontro
Al desiderio del lago di essere di più,
E rendono il sogno completo.

Lì ci nasconderemo e svaniremo,
Tutti vanamente al confine della luna,
Sentendo che ciò di cui siamo fatti
E’ stato qualche volta musicale.

Fernando Pessoa, da The Mad Fiddler

mercoledì 22 luglio 2009

I sonetti a Orfeo: I.3 [omaggio a Rainer Maria Rilke]


I.3

Un Dio lo può. Ma un uomo, sì, seguirlo

saprà attraverso la lira sottile?

E' spaccato di dentro: ove in due vie

s'incrocia il cuore, Apollo non ha tempio.


Un canto insegni tu, che non lusinga,

non è brama di cosa che s'afferra.

Il canto è Esserci. Facile a un Dio.

Ma siamo noi? E quando volge lui


all'esser nostro la terra e le stelle?

Se ami, ragazzo, tu non sei per questo,

s'anche irrompe la voce in bocca - un tale


impeto sappi obliare. Si perde.

In verità, altro soffio è il canto: un soffio

nel nulla. Un alitare nel Dio. Un vento.



Rainer Maria Rilke, Die sonette an Orpheus, 1926

venerdì 17 luglio 2009

Introduzione a “Moby Dick”, passando per Edward W. Said





Una volta letto “Moby Dick” di Herman Melville, non potrete fare a meno di essere d’accordo con la visione che del romanzo ha Edward W. Said, intellettuale a tutto tondo del Novecento, che nella raccolta di saggi “Nel segno dell’esilio” (Feltrinelli 2008) dedica uno spazio all’interpretazione di uno dei capolavori della letteratura americana e, perché no, di tutta la letteratura occidentale e ne consacra l'universalità.

Imbarcandovi sulla Pequod (il cui nome rimanda ad una tribù di indiani del tutto sterminata dall’uomo bianco) insieme ad Ismaele, Starbuck e al capitano Achab, verrete a poco a poco contagiati dalla mania ossessiva del capitano per il grosso e sfuggente cetaceo.
Vi accorgerete quasi subito che il viaggio della Pequod finisce col perdere i connotati di un viaggio realistico per assumere quelli metaforici del viaggio meta-fisico della mente verso l’Assoluto, in una tensione dialettica che è data dal continuo avvicinarsi e allontanarsi della ciurma all’obiettivo. Moby Dick è altresì il viaggio di Melville nella forma e nel linguaggio alla ricerca del coinvolgimento totale del lettore in una’avventura che genera disagio e incertezza. L’”umorismo pachidermico” e la “retorica grottesca”(come li definisce Said) di Melville servono proprio a questo, a rassicurare il lettore e a confortarlo durante il periglioso viaggio.

Ma “Moby Dick” è anche l’alternativa americana al romanzo classico europeo. Pubblicato nel 1851, il romanzo di Melville rovescia la visione che l’autore europeo ha dei suoi eroi. Nel romanzo francese o inglese realista, ad esempio, la preoccupazione dell’autore è quella di mostrare come i suoi eroi o eroine appartengano ad una formazione sociale ben riconoscibile e di mostrarne contemporaneamente la distanza, il che sfocia in un lieto fine (vedi i romanzi di Jane Austen) o in una fine tragica come quella di Emma Bovary, perseverante nella sua devianza dall’ambiente borghese.
Per Melville l’uomo americano è ontologicamente apolide e Achab è la perfetta incarnazione dell’essere itinerante. Storpio come Filottete, Achab ripudia ogni legame familiare per mettere in atto il suo progetto: uccidere la balena bianca che lo ha reso invalido, disvelandogli così tutta la sua umana fragilità. “Moby Dick” rappresenta il conflitto interiore e la volontà di potenza, quel vettore che spinge l’uomo a varcare i limiti a lui consentiti dalla sua condizione di essere mortale. La “sconvolta follia” di Achab è la sfida ad ogni idea stabile di identità.
La narrazione di “Moby Dick” rappresenta per Melville una sorta di emblema della nazione americana e la cifra del romanzo, per dirla con Said, è senz’altro la ricerca del superamento del limite, l’interrogarsi sul senso di azioni che vanno oltre.
“Moby Dick” è, dunque,un’epopea, è una sorta di cosmologia che racchiude in sé l’intero universo e la conoscenza tecnica di esso, la Pequod è un’Arca di Noè alla rovescia e Achab è, in realtà, un eroe romantico che insegue per tutta la vita la sua idea, anche a costo di morire. La balena è, se vogliamo, la meta che spinge l’uomo a mettersi in moto, e dipende dall’uomo tanto quanto l’uomo dipende da lei. Se Achab muore anche la balena "muore", perché il suo esistere ha senso soltanto in una prospettiva dialettica.
Se alla fine del romanzo il lettore avrà trovato “Moby Dick” un libro imperfetto, a tratti linguisticamente zoppicante o didascalico, anche questo fa parte del gioco. E’ un libro al maschile, dove non c’è posto per la perfezione e per il labor limae; esso è un’enciclopedia universale dove ognuno di noi può trovarvi ciò che vuole e può vestire i panni di un Titano come Achab o quelli di Ismaele. Sta a noi decidere e…salpare!


Elda Lo Cascio (17.07.2009)

Un inno alla libertà: "L'uomo e il mare" di Charles Baudelaire




"L'uomo e il mare"


Sempre amerai, uomo libero, il mare!
E' il tuo specchio: contempli dalla sponda
in quel volgere infinito dell'onda
la tua anima, abisso anch'esso amaro.


T'immergi felice nella tua immagine,
la desideri, l'abbracci, e il tuo cuore
un poco si distrae dal suo rumore
con quel lamento ribelle, selvaggio.


Siete entrambi tenebrosi e discreti:
uomo, chi può esplorare i tuoi abissi,
mare, chi può sondare i tuoi possessi?
Siete gelosi dei vostri segreti.


E tuttavia, da tempo immemorabile
vi combattete rischiando la sorte,
tanto vi esalta la strage e la morte:
nemici eterni, fratelli implacabili.


Charles Baudelaire, "L'homme et la mer" (da Le fleurs du mal, 1861)

venerdì 6 febbraio 2009

Il coraggio secondo Simone Weil


IL CORAGGIO


Quali sono le forme principali di coraggio?

Hanno forse un elemento comune?


I. Una prima forma di coraggio consiste nell'esporsi, siua attivamente (coloro che vanno in battaglia), sia passivamente (resistenza alla tortura: martiri, antifascisti).

II. Una seconda forma consiste nel restare lucidi nel pericolo e nella sofferenza (sangue freddo).

III. Una terza forma consiste nel restare lucidi in mezzo alle passioni esterne.

IV. Cerchiamo il principio comune a queste differenti forme. Si arriva alla definizione di Platone: "Un'opinione vera concernente le cose da temere e da non temere".


Conclusione: bisognerebbe cercare il rapporto tra il coraggio e le altre virtù.

Si giungerebbe a vedere che non solo c'è un unico coraggio, ma c'è un'unica virtù consistente nel restare coscienti e padroni di sé.


Simone Weil, Lezioni di filosofia


martedì 27 gennaio 2009

Il silenzio della Shoah: La notte di Elie Wiesel


La notte



Ho visto altre impiccagioni, ma non ho mai visto un condannato piangere, perché già da molto tempo questi corpi inariditi avevano dimenticato il sapore amaro delle lacrime.
Tranne che una volta. L'Oberkapo del 52° commando dei cavi era un olandese: un gigante di più di due metri. Settecento detenuti lavoravano ai suoi ordini e tutti l'amavano come un fratello. Mai nessuno aveva ricevuto uno schiaffo dalla sua mano, un'ingiuria dalla sua bocca.
Aveva al suo servizio un ragazzino un pipel, come lo chiamavamo noi. Un bambino dal volto fine e bello, incredibile in quel campo.
(A Buna i pipel erano odiati: spesso si mostravano più crudeli degli adulti. Ho visto un giorno uno di loro, di tredici anni, picchiare il padre perché non aveva fatto bene il letto. Mentre il vecchio piangeva sommessamente l'altro urlava: «Se non smetti subito di piangere non ti porterò più il pane. Capito?». Ma il piccolo servitore dell'olandese era adorato da tutti. Aveva il volto di un angelo infelice).
Un giorno la centrale elettrica di Buna saltò. Chiamata sul posto la Gestapo concluse trattarsi di sabotaggio. Si scoprì una traccia: portava al blocco dell'Oberkapo olandese. E lì, dopo una perquisizione, fu trovata una notevole quantità di armi.
L'Oberkapo fu arrestato subito. Fu torturato per settimane, ma inutilmente: non fece alcun nome. Venne trasferito ad Auschwitz e di lui non si senti più parlare.
Ma il suo piccolo pipel era rimasto nel campo, in prigione. Messo alla tortura restò anche lui muto. Allora le S.S. lo condannarono a morte, insieme a due detenuti presso i quali erano state scoperte altre armi.
Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell'appello: tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel, l'angelo dagli occhi tristi.
Le S.S. sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L'ombra della forca lo copriva.
Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia.
Tre S.S. lo sostituirono.
I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
- Viva la libertà! - gridarono i due adulti.
Il piccolo, lui, taceva.
- Dov'è il Buon Dio? Dov'e? - domandò qualcuno dietro di me.
A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.
Silenzio assoluto. All'orizzonte il sole tramontava.
Scopritevi! - urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo.
- Copritevi!
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora...
Più di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.
Dietro di me udii il solito uomo domandare:
- Dov'è dunque Dio?
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
- Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...
Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere.


Elie Wiesel (Premio Nobel per la pace nel 1986)